
Neanche a me le amicizie della signora Cancellieri piacciono. Così come non mi piacciono quelle di chi riceve troppi sostegni dall’establishment. Ma ciò che sopratutto mi allarma è quest’aria mefitica piena di veleni, dove si intravedono strani spionaggi e macchine del fango. Si aggiunga che quasi tutto il sistema informativo è nelle mani di pochi miliardari che non nascondono i loro disegni politici. Dove si vuole arrivare? È un fatto che stiamo assistendo a una specie di opa contro il maggiore partito della sinistra. In più si intravvede il ritorno del più vecchio e usurato modo di fare politica.
Quello fatto di uscite demagogiche, squalifica dell’avversario, la politica intesa come lotta per il potere personale. Se continuiamo così, chiunque vinca, non si andrà lontano. Forse mai io ho sentito in modo così assillante il dovere di dire che la sinistra fa un grandissimo sbaglio se non parte dalle cose, dalle sofferenze della gente, dal «che fare» per fronteggiare la tragedia che incombe sull’Italia repubblicana.
Con ciò non mi è venuto meno «l’ottimismo della volontà». Penso, anzi, che il fatto principale da cui partire è che la situazione è molto cambiata, è più aperta e che essa consente (ma al tempo stesso impone) un nuovo inizio. È ridicola la tesi secondo cui l’astutissimo Berlusconi sta manovrando ancora una volta il Pd imponendo ad esso una nuova versione delle «grandi intese»: due partiti di destra invece di uno, è così guadagnare più voti. Ma facciamola finita. Le «larghe intese» – come si è visto – non erano né «larghe» né «intese». Balle. Erano l’assunzione di una difficile responsabilità da parte nostra. Era lo sforzo di fronteggiare una situazione di rottura di «regime» (si finge ancora di non capire la novità di questo semplice fatto?) dando al Paese un governo di emergenza che garantisse la tenuta dello Stato di diritto e ci consentisse di non finire ai margini dell’Europa.
È evidente che dalla crisi non siamo ancora usciti. Ma dove saremmo oggi senza quel governo? Semplicemente allo sfascio e con inevitabili conseguenze come il crollo di strutture essenziali, tipo la svendita delle banche principali e del nucleo industriale. E soprattutto con la necessità di andare verso nuove elezioni allo sbando, cioè in condizioni tali che sarebbero state vinte dalla destra producendo quindi una maggioranza assoluta che per prima cosa avrebbe messo in mora le condanne di Berlusconi. Un capolavoro, amici. Dovreste accendere un cero a Giorgio Napolitano.
Sarebbe quindi tempo di smetterla con questa solfa per guardare invece meglio alla nuova realtà. La situazione è cambiata. La destra si è spaccata e il peso del governo grava molto più di prima sulle nostre spalle. E allora decidiamoci. Invece di immaginare non so quali alternative facciamo noi – Pd – il passo avanti necessario. Cominciamo noi a dettare una agenda più avanzata. A me sembra questo il compito dell’ora. Anche perché con la spaccatura della destra e l’inevitabile decadenza di Berlusconi da senatore si sono messi in moto cambiamenti che non riguardano solo il quadro politico. Ricordiamoci che il Cavaliere non era solo il capo di un partito. Era anche l’architrave di un intreccio di interessi e di poteri, non tutti alla luce del sole, che hanno condizionato molto la vita italiana, compresi i nostri rapporti con l’Europa e il mondo. I rischi restano altissimi ma finalmente si aprono nuove prospettive.
Il problema siamo noi. È la necessità che il Pd ritrovi una consapevolezza maggiore e più aggiornata del suo ruolo e della partita decisiva che si giocherà nei prossimi mesi. E dico subito cosa intendo per «nuovo inizio». I margini sono strettissimi e certi vincoli vanno rispettati. Ma un nuovo inizio è reso necessario dal fatto che è finita l’epoca del liberismo e del mercato senza regole. Anche per l’Europa. La partita, quindi oggi si deve giocare attorno alla capacità dei sistemi socio-economici di integrare la crescita economica con un nuovo sviluppo sociale. Io penso che sta qui il banco di prova del nuovo segretario del Pd: chiunque egli sia. Sta nella necessità di mettere in piedi un partito e non solo una organizzazione elettorale, un partito società, un luogo dove si forma una nuova classe dirigente e dove si possa elaborare un disegno etico e ideale. Senza di che ce lo scordiamo il bipolarismo. Oppure pensiamo che l’alternativa alla destra si fa limitandosi a inventare una nuova legge elettorale? Che idea di partito abbiamo in testa? L’affluenza al voto di tanti militanti, i consensi per candidati nuovi (e qui metto non solo il voto per Cuperlo, superiore a ogni previsione, metto anche quello di una larga parte del voto per Renzi) ci dicono che è giunto il momento di alzare il tiro e di guardare al di là dell’8 dicembre. La sinistra, come si è visto, esiste. Deve uscire dal suo lungo silenzio, deve guardare al di là delle piccole beghe e tornare a credere in se stessa e nella sua capacità di dare al Paese un messaggio alto di fiducia e di lotta.
Io affido le mie speranze a un gruppo di giovani che si sta raccogliendo intorno a Gianni Cuperlo. Sono forti ed esperti, ma devono sempre più parlare alla gente in prima persona. Ci devono credere. Io ho vissuto la catastrofe dell’8 settembre del 1943. E ho visto come allora un gruppo di politici giovani (meno di 40 anni) si rivolsero a quello che allora si era ridotto a un popolo di profughi in fuga dalla guerra e dal collasso dello Stato. Quei giovani riuscirono a unire quel popolo sotto grandi bandiere, bandiere politiche e ideali, non tecnocratiche. So bene che tutto è cambiato da allora. L’Italia di oggi è ancora uno dei Paesi più ricchi del mondo e al governo ci siamo noi. Ma non basta sostenere il governo in Parlamento. Occorre spingerlo verso nuove scelte di fondo partendo dal Paese, dai bisogni e dalle sofferenze della gente. La prudenza, il realismo vanno benissimo, sono virtù che servono anche nelle situazioni «eccezionali». Ma non bastano.
L’Italia – questa è la sostanza della mia analisi – è entrata in uno stato di «eccezione». La parola crisi non dice tutto. Il Paese chiede un messaggio più forte che dia un senso ai sacrifici e al rigore. Stiamo attenti. La crisi sta intaccando il tessuto stesso della nazione, e io uso questa grande parola che è «nazione» perché è di questo che si tratta. Non solo dell’economia e nemmeno solo delle Istituzioni. Si tratta di un oscuramento delle ragioni dello stare insieme. Sono troppi, non solo tra i giovani, quelli che vogliono andare a vivere all’estero. È una crisi di fiducia, aggravata dalla latitanza delle élite e dalla pochezze delle classi dirigenti politiche. Tutta la questione del Pd e di chi lo guiderà ruota intorno a questo. Alla capacità o meno di dare una risposta a una crisi di questa gravità.