Papa Francesco a Civilità Cattolica, lunga intervista su gay, aborto, divorziati

E’ una lunghissima, storica intervista quella pubblicata ieri da Civilità Cattolica, la rivista dei gesuiti. Un colloquio di sei ore tra il direttore della testata Antonio Spadaro e Papa Francesco. Jorge Bergoglio continua la sua opera di rinnovamento della Chiesa, come testimoniato da tante delle sue risposte. Tra i temi toccati anche gay, aborto, divorziati, metodi contraccettivi. Ma ecco una corposa selezione dei passaggi più interessanti dell’intervista a Papa Francesco.

Chi è Jorge Mario Bergoglio?

«Non so quale possa essere la definizione più giusta… Io sono un peccatore. Questa è la definizione più giusta. E non è un modo di dire, un genere letterario. Sono un peccatore. Sì, posso forse dire che sono un po’ furbo, so muovermi, ma è vero che sono anche un po’ ingenuo. Sì, ma la sintesi migliore, quella che mi viene più da dentro e che sento più vera, è proprio questa: “sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”. Io sono uno che è guardato dal Signore. Il mio motto Miserando atque eligendo l’ho sentito sempre come molto vero per me».

Il motto di Papa Francesco è tratto dalle Omelie di san Beda il Venerabile, il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, scrive: «Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi».

E aggiunge: «il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano sia in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordiando».

Papa Francesco continua nella sua riflessione e mi dice, facendo un salto di cui sul momento non comprendo il senso: «Io non conosco Roma. Conosco poche cose. Tra queste Santa Maria Maggiore: ci andavo sempre». Rido e gli dico: «lo abbiamo capito tutti molto bene, Santo Padre!». «Ecco, sì — prosegue il Papa —, conosco Santa Maria Maggiore, San Pietro… ma venendo a Roma ho sempre abitato in via della Scrofa. Da lì visitavo spesso la chiesa di San Luigi dei Francesi, e lì andavo a contemplare il quadro della vocazione di san Matteo di Caravaggio». Comincio a intuire cosa il Papa vuole dirmi.

«Quel dito di Gesù così… verso Matteo. Così sono io. Così mi sento. Come Matteo». E qui il Papa si fa deciso, come se avesse colto l’immagine di sé che andava cercando: «È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi, come a dire: “no, non me! No, questi soldi sono miei!”. Ecco, questo sono io: “un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi”. E questo è quel che ho detto quando mi hanno chiesto se accettavo la mia elezione a Pontefice». Quindi sussurra: «Peccator sum, sed super misericordia et infinita patientia Domini nostri Jesu Christi confisus et in spiritu penitentiae accepto».

Perché si è fatto gesuita?

«Della Compagnia mi hanno colpito tre cose: la missionarietà, la comunità e la disciplina. Curioso questo, perché io sono un indisciplinato nato, nato, nato. Ma la loro disciplina, il modo di ordinare il tempo, mi ha colpito tanto. E poi una cosa per me davvero fondamentale è la comunità. Cercavo sempre una comunità. Io non mi vedevo prete solo: ho bisogno di comunità. E lo si capisce dal fatto che sono qui a Santa Marta: quando sono stato eletto, abitavo per sorteggio nella stanza 207. Questa dove siamo adesso era una camera per gli ospiti. Ho scelto di abitare qui, nella camera 201, perché quando ho preso possesso dell’appartamento pontificio, dentro di me ho sentito distintamente un “no”. L’appartamento pontificio nel Palazzo Apostolico non è lussuoso. È antico, fatto con buon gusto e grande, non lussuoso. Ma alla fine è come un imbuto al rovescio. È grande e spazioso, ma l’ingresso è davvero stretto. Si entra col contagocce, e io no, senza gente non posso vivere. Ho bisogno di vivere la mia vita insieme agli altri».

L’esperienza di governo

Quale tipo di esperienza di governo può far maturare la formazione avuta da padre Bergoglio, che è stato prima superiore e poi superiore provinciale nella Compagnia di Gesù? Lo stile di governo della Compagnia implica la decisione da parte del superiore, ma anche il confronto con i suoi «consultori». E così chiedo al Papa: «Pensa che la sua esperienza di governo del passato possa servire alla sua attuale azione di governo della Chiesa universale?». Papa Francesco dopo una breve pausa di riflessione si fa serio, ma molto sereno. «Nella mia esperienza di superiore in Compagnia, a dire il vero, io non mi sono sempre comportato così, cioè facendo le necessarie consultazioni. E questa non è stata una cosa buona. Il mio governo come gesuita all’inizio aveva molti difetti. Quello era un tempo difficile per la Compagnia: era scomparsa una intera generazione di gesuiti. Per questo mi son trovato Provinciale ancora molto giovane. Avevo 36 anni: una pazzia. Bisognava affrontare situazioni difficili, e io prendevo le mie decisioni in maniera brusca e personalista. Sì, devo aggiungere però una cosa: quando affido una cosa a una persona, mi fido totalmente di quella persona. Deve fare un errore davvero grande perché io la riprenda. Ma, nonostante questo, alla fine la gente si stanca dell’autoritarismo. Il mio modo autoritario e rapido di prendere decisioni mi ha portato ad avere seri problemi e ad essere accusato di essere ultraconservatore. Ho vissuto un tempo di grande crisi interiore quando ero a Cordova. Ecco, no, non sono stato certo come la Beata Imelda, ma non sono mai stato di destra. È stato il mio modo autoritario di prendere le decisioni a creare problemi». «Dico queste cose come una esperienza di vita e per far capire quali sono i pericoli. Col tempo ho imparato molte cose. Il Signore ha permesso questa pedagogia di governo anche attraverso i miei difetti e i miei peccati. Così da arcivescovo di Buenos Aires ogni quindici giorni facevo una riunione con i sei vescovi ausiliari, varie volte l’anno col Consiglio presbiterale. Si ponevano domande e si apriva lo spazio alla discussione. Questo mi ha molto aiutato a prendere le decisioni migliori. E adesso sento alcune persone che mi dicono: “non si consulti troppo, e decida”. Credo invece che la consultazione sia molto importante. I Concistori, i Sinodi sono, ad esempio, luoghi importanti per rendere vera e attiva questa consultazione. Bisogna renderli però meno rigidi nella forma. Voglio consultazioni reali, non formali. La Consulta degli otto cardinali, questo gruppo consultivo outsider, non è una decisione solamente mia, ma è frutto della volontà dei cardinali, così come è stata espressa nelle Congregazioni Generali prima del Conclave. E voglio che sia una Consulta reale, non formale».

«Sentire con la Chiesa»

«Questa Chiesa con la quale dobbiamo “sentire” è la casa di tutti, non una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate. Non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità. E la Chiesa è Madre — prosegue —. La Chiesa è feconda, deve esserlo. Vedi, quando io mi accorgo di comportamenti negativi di ministri della Chiesa o di consacrati o consacrate, la prima cosa che mi viene in mente è: “ecco uno scapolone”, o “ecco una zitella”. Non sono né padri, né madri. Non sono stati capaci di dare vita. Invece, per esempio, quando leggo la vita dei missionari salesiani che sono andati in Patagonia, leggo una storia di vita, di fecondità». «Un altro esempio di questi giorni: ho visto che è stata molto ripresa dai giornali la telefonata che ho fatto a un ragazzo che mi aveva scritto una lettera. Io gli ho telefonato perché quella lettera era tanto bella, tanto semplice. Per me questo è stato un atto di fecondità. Mi sono reso conto che è un giovane che sta crescendo, ha riconosciuto un padre, e così gli dice qualcosa della sua vita. Il padre non può dire “me ne infischio”. Questa fecondità mi fa tanto bene».

La Chiesa ospedale da campo

Chiedo al Papa: «Di che cosa la Chiesa ha più bisogno in questo momento storico? Sono necessarie riforme? Quali sono i suoi desideri sulla Chiesa dei prossimi anni? Quale Chiesa “sogna”?». Papa Francesco, cogliendo l’incipit della mia domanda, comincia col dire: «Papa Benedetto ha fatto un atto di santità, di grandezza, di umiltà. È un uomo di Dio», dimostrando un grande affetto e una enorme stima per il suo predecessore. «Io vedo con chiarezza — prosegue — che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso».

«La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ha salvato!”. E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia. Il confessore, ad esempio, corre sempre il pericolo di essere o troppo rigorista o troppo lasso. Nessuno dei due è misericordioso, perché nessuno dei due si fa veramente carico della persona. Il rigorista se ne lava le mani perché lo rimette al comandamento. Il lasso se ne lava le mani dicendo semplicemente “questo non è peccato” o cose simili. Le persone vanno accompagnate, le ferite vanno curate».

«Come stiamo trattando il popolo di Dio? Sogno una Chiesa Madre e Pastora. I ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo. Questo è Vangelo puro. Dio è più grande del peccato. Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato. I Vescovi, particolarmente, devono essere uomini capaci di sostenere con pazienza i passi di Dio nel suo popolo in modo che nessuno rimanga indietro, ma anche per accompagnare il gregge che ha il fiuto per trovare nuove strade». «Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve tenendo le porte aperte, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente. Chi se n’è andato, a volte lo ha fatto per ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare a un ritorno. Ma ci vuole audacia, coraggio».

Divorziati risposati, coppie omosessuali, aborto

Raccolgo ciò che il Santo Padre sta dicendo e faccio riferimento al fatto che ci sono cristiani che vivono in situazioni non regolari per la Chiesa o comunque in situazioni complesse, cristiani che, in un modo o nell’altro, vivono ferite aperte. Penso a divorziati risposati, coppie omosessuali, altre situazioni difficili. Come fare una pastorale missionaria in questi casi? Su che cosa far leva? Il Papa fa cenno di aver compreso che cosa intendo dire e risponde.

«Dobbiamo annunciare il Vangelo su ogni strada, predicando la buona notizia del Regno e curando, anche con la nostra predicazione, ogni tipo di malattia e di ferita. A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono “feriti sociali” perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo. Durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro ho detto che, se una persona omosessuale è di buona volontà ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Dicendo questo io ho detto quel che dice il Catechismo. La religione ha il diritto di esprimere la propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi: l’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile. Una volta una persona, in maniera provocatoria, mi chiese se approvavo l’omosessualità. Io allora le risposi con un’altra domanda: “Dimmi: Dio, quando guarda a una persona omosessuale, ne approva l’esistenza con affetto o la respinge condannandola?”. Bisogna sempre considerare la persona. Qui entriamo nel mistero dell’uomo. Nella vita Dio accompagna le persone, e noi dobbiamo accompagnarle a partire dalla loro condizione. Bisogna accompagnare con misericordia. Quando questo accade, lo Spirito Santo ispira il sacerdote a dire la cosa più giusta». «Questa è anche la grandezza della Confessione: il fatto di valutare caso per caso, e di poter discernere qual è la cosa migliore da fare per una persona che cerca Dio e la sua grazia. Il confessionale non è una sala di tortura, ma il luogo della misericordia nel quale il Signore ci stimola a fare meglio che possiamo. Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito. Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?».

«Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione». «Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali».

«Dico questo anche pensando alla predicazione e ai contenuti della nostra predicazione. Una bella omelia, una vera omelia, deve cominciare con il primo annuncio, con l’annuncio della salvezza. Non c’è niente di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Poi si deve fare una catechesi. Infine si può tirare anche una conseguenza morale. Ma l’annuncio dell’amore salvifico di Dio è previo all’obbligazione morale e religiosa. Oggi a volte sembra che prevalga l’ordine inverso. L’omelia è la pietra di paragone per calibrare la vicinanza e la capacità di incontro di un pastore con il suo popolo, perché chi predica deve riconoscere il cuore della sua comunità per cercare dove è vivo e ardente il desiderio di Dio. Il messaggio evangelico non può essere ridotto dunque ad alcuni suoi aspetti che, seppure importanti, da soli non manifestano il cuore dell’insegnamento di Gesù».

Il ruolo della donna nella Chiesa

E il ruolo della donna nella Chiesa? Il Papa ha più volte fatto riferimento a questo tema in varie occasioni. In una intervista aveva affermato che la presenza femminile nella Chiesa non è emersa più di tanto, perché la tentazione del maschilismo non ha lasciato spazio per rendere visibile il ruolo che spetta alle donne nella comunità. Ha ripreso la questione durante il viaggio di ritorno da Rio de Janeiro affermando che non è stata fatta ancora una profonda teologia della donna. Allora, chiedo: «Quale deve essere il ruolo della donna nella Chiesa? Come fare per renderlo oggi più visibile?». «È necessario ampliare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Temo la soluzione del “machismo in gonnella”, perché in realtà la donna ha una struttura differente dall’uomo. E invece i discorsi che sento sul ruolo della donna sono spesso ispirati proprio da una ideologia machista. Le donne stanno ponendo domande profonde che vanno affrontate. La Chiesa non può essere se stessa senza la donna e il suo ruolo. La donna per la Chiesa è imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei Vescovi. Dico questo perché non bisogna confondere la funzione con la dignità. Bisogna dunque approfondire meglio la figura della donna nella Chiesa. Bisogna lavorare di più per fare una profonda teologia della donna. Solo compiendo questo passaggio si potrà riflettere meglio sulla funzione della donna all’interno della Chiesa. Il genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti. La sfida oggi è proprio questa: riflettere sul posto specifico della donna anche proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa».

Trovare Dio

«Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa». «Incontrare Dio in tutte le cose non è un eureka empirico. In fondo, quando desideriamo incontrare Dio, vorremmo constatarlo subito con metodo empirico. Così non si incontra Dio. Lo si incontra nella brezza leggera avverita da Elia. I sensi che constatano Dio sono quelli che sant’Ignazio chiama i “sensi spirituali”. Ignazio chiede di aprire la sensibilità spirituale per incontrare Dio al di là di un approccio puramente empirico. È necessario un atteggiamento contemplativo: è il sentire che si va per il buon cammino della comprensione e dell’affetto nei confronti delle cose e delle situazioni. Il segno che si è in questo buon cammino è quello della pace profonda, della consolazione spirituale, dell’amore di Dio, e di vedere tutte le cose in Dio».

«Se l’incontro con Dio in tutte le cose non è un “eureka empirico” — dico al Papa — e se dunque si tratta di un cammino che legge la storia, si possono anche commettere errori…».

«Sì, in questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. L’incertezza si ha in ogni vero discernimento che è aperto alla conferma della consolazione spirituale». «Il rischio nel cercare e trovare Dio in tutte le cose è dunque la volontà di esplicitare troppo, di dire con certezza umana e arroganza: “Dio è qui”. Troveremmo solamente un dio a nostra misura. L’atteggiamento corretto è quello agostiniano: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo sempre. E spesso si cerca a tentoni, come si legge nella Bibbia. È questa l’esperienza dei grandi Padri della fede, che sono il nostro modello. Bisogna rileggere il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei. Abramo è partito senza sapere dove andava, per fede. Tutti i nostri antenati della fede morirono vedendo i beni promessi, ma da lontano… La nostra vita non ci è data come un libretto d’opera in cui c’è tutto scritto, ma è andare, camminare, fare, cercare, vedere… Si deve entrare nell’avventura della ricerca dell’incontro e del lasciarsi cercare e lasciarsi incontrare da Dio».

«Perché Dio sta prima, Dio sta prima sempre, Dio primerea. Dio è un po’ come il fiore del mandorlo della tua Sicilia, Antonio, che fiorisce sempre per primo. Lo leggiamo nei Profeti. Dunque, Dio lo si incontra camminando, nel cammino. E a questo punto qualcuno potrebbe dire che questo è relativismo. È relativismo? Sì, se è inteso male, come una specie di panteismo indistinto. No, se è inteso in senso biblico, per cui Dio è sempre una sorpresa, e dunque non sai mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell’incontro con Lui. Bisogna dunque discernere l’incontro. Per questo il discernimento è fondamentale».

«Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante. Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio».

I riferimenti artistici e letterari del Papa

«Ho amato molto autori diversi tra loro. Amo moltissimo Dostoevskij e Hölderlin. Di Hölderlin voglio ricordare quella lirica per il compleanno di sua nonna che è di grande bellezza, e che a me ha fatto anche tanto bene spiritualmente. È quella che si chiude con il verso Che l’uomo mantenga quel che il fanciullo ha promesso. Mi ha colpito anche perché ho molto amato mia nonna Rosa, e lì Hölderlin accosta sua nonna a Maria che ha generato Gesù, che per lui è l’amico della terra che non ha considerato straniero nessuno. Ho letto il libro I Promessi Sposi tre volte e ce l’ho adesso sul tavolo per rileggerlo. Manzoni mi ha dato tanto. Mia nonna, quand’ero bambino, mi ha insegnato a memoria l’inizio di questo libro: “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti…”. Anche Gerard Manley Hopkins mi è piaciuto tanto».

«In pittura ammiro Caravaggio: le sue tele mi parlano. Ma anche Chagall con la sua Crocifissione bianca…».

«In musica amo Mozart, ovviamente. Quell’Et Incarnatus est della sua Missa in Do è insuperabile: ti porta a Dio! Amo Mozart eseguito da Clara Haskil​. Mozart mi riempie: non posso pensarlo, devo sentirlo. Beethoven mi piace ascoltarlo, ma prometeicamente. E l’interprete più prometeico per me è Furtwängler. E poi le Passioni di Bach. Il brano di Bach che amo tanto è l’Erbarme Dich, il pianto di Pietro della Passione secondo Matteo. Sublime. Poi, a un livello diverso, non intimo allo stesso modo, amo Wagner. Mi piace ascoltarlo, ma non sempre. La Tetralogia dell’Anello eseguita da Furtwängler alla Scala nel ’50 è la cosa per me migliore. Ma anche il Parsifal eseguito nel ’62 da Knappertsbusch».

«Dovremmo anche parlare del cinema. La strada di Fellini è il film che forse ho amato di più. Mi identifico con quel film, nel quale c’è un implicito riferimento a san Francesco. Credo poi di aver visto tutti i film con Anna Magnani e Aldo Fabrizi quando avevo tra i 10 e 12 anni. Un altro film che ho molto amato è Roma città aperta. Devo la mia cultura cinematografica soprattutto ai miei genitori che ci portavano spesso al cinema».

«Comunque in generale io amo gli artisti tragici, specialmente i più classici. C’è una bella definizione che Cervantes pone sulla bocca del baccelliere Carrasco per fare l’elogio della storia di Don Chisciotte: “i fanciulli l’hanno tra le mani, i giovani la leggono, gli adulti la intendono, i vecchi ne fanno l’elogio”. Questa per me può essere una buona definizione per i classici».

L’uomo che cerca di comprendere se stesso

«Del resto, in ogni epoca l’uomo cerca di comprendere ed esprimere meglio se stesso. E dunque l’uomo col tempo cambia il modo di percepire se stesso: una cosa è l’uomo che si esprime scolpendo la Nike di Samotracia, un’altra quella del Caravaggio, un’altra quella di Chagall e ancora un’altra quella di Dalí. Anche le forme di espressione della verità possono essere multiformi, e questo anzi è necessario per la trasmissione del messaggio evangelico nel suo significato immutabile».

«L’uomo è alla ricerca di se stesso, e ovviamente in questa ricerca può anche commettere errori. La Chiesa ha vissuto tempi di genialità, come ad esempio quello del tomismo. Ma vive anche tempi di decadenza del pensiero. Ad esempio: non dobbiamo confondere la genialità del tomismo con il tomismo decadente. Io, purtroppo, ho studiato la filosofia con manuali di tomismo decadente. Nel pensare l’uomo, dunque, la Chiesa dovrebbe tendere alla genialità, non alla decadenza».

«Quando una espressione del pensiero non è valida? Quando il pensiero perde di vista l’umano o quando addirittura ha paura dell’umano o si lascia ingannare su se stesso. È il pensiero ingannato che può essere raffigurato come Ulisse davanti al canto delle sirene, o come Tannhäuser, circondato in un’orgia da satiri e baccanti, o come Parsifal, nel secondo atto dell’opera wagneriana, alla reggia di Klingsor. Il pensiero della Chiesa deve recuperare genialità e capire sempre meglio come l’uomo si comprende oggi per sviluppare e approfondire il proprio insegnamento».

Pregare

«Prego l’Ufficio ogni mattina. Mi piace pregare con i Salmi. Poi, a seguire, celebro la Messa. Prego il Rosario. Ciò che davvero preferisco è l’Adorazione serale, anche quando mi distraggo e penso ad altro o addirittura mi addormento pregando. La sera quindi, tra le sette e le otto, sto davanti al Santissimo per un’ora in adorazione. Ma anche prego mentalmente quando aspetto dal dentista o in altri momenti della giornata. E la preghiera è per me sempre una preghiera “memoriosa”, piena di memoria, di ricordi, anche memoria della mia storia o di quello che il Signore ha fatto nella sua Chiesa o in una parrocchia particolare. Per me è la memoria di cui sant’Ignazio parla nella Prima Settimana degli Esercizi nell’incontro misericordioso con Cristo Crocifisso. E mi chiedo: “Che cosa ho fatto per Cristo? Che cosa faccio per Cristo? Che cosa devo fare per Cristo?”. È la memoria di cui Ignazio parla anche nella Contemplatio ad amorem, quando chiede di richiamare alla memoria i benefici ricevuti. Ma soprattutto io so anche che il Signore ha memoria di me. Io posso dimenticarmi di Lui, ma io so che Lui mai, mai si dimentica di me. La memoria fonda radicalmente il cuore di un gesuita: è la memoria della grazia, la memoria di cui si parla nel Deuteronomio, la memoria delle opere di Dio che sono alla base dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. È questa memoria che mi fa figlio e che mi fa essere anche padre».