Lezioni di politica.Il potere come mezzo e il senso del tragico

 

Il potere come mezzo e il senso del tragico

Un estratto della celebre conferenza di Max Weber sulla “Politica come professione” tenuta nel 1919 a Monaco: una lezione ancora attuale

Il potere come mezzo e il senso del tragico

 

Si può dire che tre qualità sono soprattutto decisive per l’uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Passione nel senso di Sachlichkeit: dedizione appassionata a una “causa”, al dio o al demone che la dirige. … E infatti la semplice passione, per quanto autenticamente vissuta, non é ancora sufficiente. Essa non crea l’uomo politico se, in quanto servizio per una “causa”, non fa anche della responsabilità nei confronti per l’appunto di questa causa la stella polare decisiva dell’agire. Da ciò deriva la necessità – e questa è la qualità psicologica fondamentale dell’uomo politico – della lungimiranza, vale a dire della capacità di far agire su di sé la realtà con calma e raccoglimento interiore: dunque, la distanza tra le cose e gli uomini. La “mancanza di distanza”, semplicemente in quanto tale, costituisce uno dei peccati mortali di ogni uomo politico ed é una di quelle qualità che, coltivate presso la nuova generazione dei nostri intellettuali, li condannerà all’inettitudine politica. Il problema é infatti proprio questo: come si possono far convivere nella stessa anima un’ardente passione e una fredda lungimiranza? La politica si fa con la testa, non con altre parti del corpo o dell’anima. E tuttavia la dedizione a essa, se non deve essere un frivolo gioco intellettuale ma un agire umanamente autentico, può sorgere ed essere alimentata soltanto dalla passione. (…)

03-logoL’uomo politico deve dominare in se stesso, ogni giorno e ogni ora, un nemico del tutto banale e fin troppo umano: la vanità comune a tutti, la nemica mortale di ogni dedizione a una causa e di ogni distanza e, in questo caso, della distanza rispetto a se stessi.  La vanità è una caratteristica assai diffusa, e forse nessuno ne è del tutto privo. Nei circoli accademici e intellettuali essa costituisce una sorta di malattia professionale. Ma proprio nel caso degli studiosi, per quanto possa risultare antipatica, essa è relativamente innocua, nel senso che di regola non nuoce all’attività scientifica. Assai diversa è la situazione per l’uomo politico. L’aspirazione al potere é lo strumento con cui egli inevitabilmente si trova a operare. L’ “istinto di potenza” fa perciò in effetti parte delle sue normali qualità. E tuttavia il peccato contro lo spirito santo della sua professione ha inizio là dove questa aspirazione al potere diviene priva di causa e si trasforma in un oggetto di autoesaltazione puramente personale, invece di porsi esclusivamente al servizio della “causa”.

Vi sono infatti in ultima analisi soltanto due tipi di peccato mortale sul terreno della politica: l’assenza di una causa e – spesso, ma non sempre, si tratta della stessa cosa – la mancanza di responsabilità. La vanità, vale a dire il bisogno di porre se stessi in primo piano nel modo più visibile possibile, induce l’uomo politico nella fortissima tentazione di commettere uno di questi due peccati, se non tutti e due insieme. E ciò tanto più in quanto il demagogo é costretto a contare sull’“effetto”; egli si trova perciò continuamente in pericolo tanto di diventare un mero attore quanto di prendere con leggerezza la responsabilità per le conseguenze del suo agire e di preoccuparsi solamente dell’ “impressione” che suscita. L’assenza di una causa lo porta ad aspirare alla luccicante apparenza del potere invece che al potere effettivo; la mancanza di responsabilità a godere del potere soltanto per il potere stesso, senza uno scopo concreto. E infatti sebbene, o piuttosto proprio perché il potere costituisce il mezzo inevitabile di ogni politica e l’aspirazione al potere una delle sue forze propulsive, non vi è deformazione più pericolosa della forza politica che il vantarsi del potere come un parvenu, del vanitoso compiacimento nel sentimento del potere e soprattutto di ogni culto del potere in se stesso.

Il mero “politico della potenza”, come cerca di celebrarlo un culto praticato con zelo anche da noi, può esercitare una forte influenza, ma in effetti opera nel vuoto e nell’assurdo. In ciò i critici della “politica di potenza” hanno pienamente ragione. Dall’improvviso crollo interiore di alcuni tipici rappresentanti di questo principio abbiamo potuto constatare quale intima debolezza e impotenza si nasconda dietro questi gesti boriosi, ma del tutto vuoti. Esso é il prodotto di una indifferenza assai misera e superficiale di fronte al senso dell’agire umano, la quale non ha alcun tipo di rapporto con la coscienza del tragico a cui è intrecciato in verità ogni agire, e in particolare l’agire politico.  E’ del tutto vero e costituisce uno dei dati fondamentali di tutta la storia – di cui non possiamo qui occuparci più da vicino – che il risultato finale dell’agire politico si trova spesso, o meglio, di regola, in un rapporto del tutto inadeguato e spesso del tutto paradossale con il suo significato originario. Ma proprio per questo un tale significato – il fatto di servire una causa – non deve mai mancare, se l’agire deve altrimenti avere un suo sostegno interiore.

Quale debba essere la causa per i cui fini l’uomo politico aspira al potere e fa uso del potere è una questione di fede. Egli può mettersi al servizio di scopi nazionali o umanitari, sociali ed etici o culturali, intramondani o religiosi, può essere sostenuto da una solida fede nel progresso oppure può rifiutare in modo distaccato questo genere di fede, può pretendere di stare al servizio di un’ ”idea” oppure respingere in via di principio una tale pretesa e voler servire i fini esteriori della vita quotidiana, ma sempre deve comunque esserci una qualche fede. Altrimenti la maledizione della nullità delle creature grava anche sui successi politici esteriormente più solidi.

*estratto della conferenza “La politica come professione” tenuta nel 1919 a Monaco di Baviera e pubblicata in Italia da Einaudi (2004)