La vera sfida è fidelizzare i simpatizzanti

EuropaQuotidiano

La vera sfida è fidelizzare i simpatizzanti

D’Alema continua a contrapporre iscritti ed elettori. Ma l’istinto di conservazione porta alla decadenza

 

Qualche giorno fa Massimo D’Alema ha fatto la seguente affermazione: «Se Renzi vorrà fare il segretario, è probabile che vincerà anche grazie al sostegno mediatico di cui gode, ma non so se si imporrà tra gli iscritti. Insomma, la sua elezione sarebbe foriera di un periodo molto complicato e difficile». In superficie questa affermazione può apparire come una fedele fotografia della situazione interna del Partito democratico. Tuttavia, più in profondità, il realismo allusivo delle parole di D’Alema, ha ben altre implicazioni.

 

Innanzitutto si ha un’accettazione senza riserve di un dualismo competitivo tra il consenso derivante dagli iscritti al partito e quello ottenuto invece nel più vasto ed eterogeneo insieme dei semplici simpatizzanti. Da un lato ci sarebbero gli iscritti, che verosimilmente alle primarie per la segreteria voteranno in maggioranza un candidato diverso da Renzi; dall’altro, tutto il restante elettorato, ovvero i simpatizzanti già elettori e i simpatizzanti potenziali elettori, alcuni dei quali, non hanno mai votato Pd ma potrebbero iniziare a farlo se il partito, senza ulteriori indugi, puntasse finalmente su Matteo Renzi. Altrettanto verosimilmente i simpatizzanti sono in larga maggioranza a favore proprio del sindaco di Firenze.

 

Tale contrapposizione fra militanti e simpatizzanti non è in sé innaturale ma è patologica. È infatti sintomatica dell’assenza di interazione non solo politica, ma anche e soprattutto civica e morale tra le generazioni che si sono succedute negli ultimi tre decenni. In questo periodo una reale partecipazione delle nuove generazioni di simpatizzanti non è mai stata favorita adeguatamente. I ragazzi che negli anni si sono avvicinati alla politica non sono stati efficacemente motivati a fare il passo ulteriore, né verso una frequentazione consapevole, né tanto meno verso un impegno vero e proprio.

 

In questo periodo della nostra storia, si è verificata l’abdicazione delle classi dirigenti dal loro ruolo naturale di guida. Questa ritirata dalle responsabilità ha assunto forme svariate e tra loro antitetiche: dirigismo estremo, assistenzialismo, odio di classe, immobilismo, populismo, razzismo, fanatismo liberista. I risultati pratici sono stati dapprima il crollo delle certezze e del furore, poi anche quello delle incertezze e del timore. In un tale contesto l’apatia ha trovato terreno fertile e quasi nessun serio concorrente. E così a Roma, un esempio tra i tanti, viene eletto un sindaco con un numero totale di votanti pari a meno del 50 per cento degli aventi diritto.

 

Nessuno è privo di responsabilità, tutti hanno dato il loro contributo a questa corsa allo sfascio.
Ma per quanto riguarda il Pd, continuare a contrapporre nei fatti simpatizzanti ed iscritti significa accentuare il distacco dei cittadini dalla politica, nonché impedire il riavvicinamento di quei tanti che non vogliono rassegnarsi ad essere privi di una adeguata rappresentanza politica.

 

Gli iscritti rappresentano un esempio di generosità. Dedicare proprie energie per servire un progetto collettivo, fare della missione sociale del proprio partito la propria missione, è un modo esemplare di mettersi di gioco. Ma i simpatizzanti, non dimentichiamolo mai, rappresentano la prospettiva. La fidelizzazione dei simpatizzanti dovrebbe rappresentare la prova più difficile ma al contempo più entusiasmante per una persona impegnata in politica. Oggi invece c’è diffidenza. Un eventuale afflusso di voti provenienti da un elettorato allargato rispetto al solito, viene addirittura vissuto come un problema, anziché come un auspicio.

 

La paura di cambiare è più forte della voglia di cambiamento. Si ritiene che cambiare significhi perdersi. Casomai, collassare e dissolversi significa perdersi. Quando la prospettiva incalza con la forza e la bellezza dei numeri, bisogna rispondere. Continuare a barricarsi dietro un’esausta ortodossia, temporeggiare con tecnicismi, scuse e cavilli vari, chiudersi ostinatamente in un rigido dogmatismo procedurale, è totalmente inutile, in quanto non conferisce alcuna patente di autorevolezza e non garantisce immutabilità, a niente e a nessuno. Procrastinare ulteriormente l’appuntamento con il futuro significa pregiudicare per sempre le opportunità del presente.

 

Il Partito democratico deve occuparsi di più di recuperare terreno, e magari conquistarne del nuovo, anziché concentrarsi senza tregua su di una difesa acritica delle proprie posizioni. Davvero nel Pd nessuno, ad oggi, ha sbagliato qualcosa? Oppure, tutti hanno sbagliato qualcosa e quindi, alla fine, nessun ha sbagliato niente? È tutta qui l’arringa difensiva dopo una serie di brucianti sconfitte?

 

Il cambiamento è nelle cose. Opporvisi, anche strenuamente, avrà come unico risultato un cambiamento diverso da quello auspicabile. Tentare di sabotare il naturale avvicendamento nel partito determinerà soltanto una dissoluzione dello stesso. Altro che “periodo difficile e complicato”. La tenuta del partito è messa in pericolo dalla refrattarietà alla presa di coscienza di molti autorevoli dirigenti; non certo dalla richiesta di una maggiore collegialità proveniente da più fronti. Ricordandosi bene che oggi non esiste alcuna reale collegialità senza una drastica apertura alle istanze provenienti dall’esterno.

 

Lo spirito di conservazione non è conservatorismo. L’istinto di conservazione è produttore di futuro, di continuità, grazie ad una innata capacità di reazione ai cambiamenti. Senza tale capacità, non c’è conservazione, c’è solo arroccamento, appunto, conservatorismo. Ma il conservatorismo è prodromico alla decadenza. La forza di cambiare produce futuro, il conservatorismo lo preclude. Allora come si fa ritenere normale che la composizione gli iscritti non rispecchi la società civile dei semplici simpatizzanti? Come si fa a non ritenere un problema grave il fatto che, riguardo alla scelta della figura più idonea per la segreteria, la maggioranza degli iscritti abbia idee addirittura antitetiche a quelle della maggioranza dei semplici simpatizzanti?

 

Coloro che hanno eretto quel muro che divide gli uni dagli altri, dovrebbero perlomeno esimersi dal difenderlo ad oltranza, come stanno facendo, a qualsiasi costo. Soprattutto perché il costo è a carico del paese. La priorità è il futuro del paese, non il presente politico di alcuni.

 

Se fosse vero che una segreteria Renzi sarebbe portatrice di forte scontento fra gli iscritti, quale sarebbe lo stato d’animo dell’insieme dell’elettorato di centrosinistra qualora vi fosse una qualsiasi riedizione di un campagna elettorale all’insegna di giaguari da smacchiare? Eppure ancora si gioca al padrone di casa che difende i suoi conviventi contro presunti inclusi. Tocca ora ai conviventi di questi irremovibili padroni di casa, a scrollarsi di dosso i pregiudizi e iniziare da subito progettare il futuro. Ma per realizzare i progetti, bisogna vincere, rivincere e poi vincere ancora. Bisogna passare dal broncio alle scelte. Adesso.